domenica 25 dicembre 2011

Il Kaos e la stella danzante


Il rap è dionisiaco?


E' Natale, il giorno della Coca Cola e di un grande uomo extracomunitario. Il mio pensiero va ad un caro amico, rinchiuso anche oggi fra quattro mura. Gli hanno lasciato solo penne e colori... perciò gli auguro di prendere il volo con quelli. Per vari motivi questo post è dedicato a lui.


Che cazzo c'entra l'hip hop con Nietzsche? Che volete che vi dica, forse condividono solo il fatto di starmi in testa entrambi, forse la sottoscritta ha mangiato troppo, forse di qua forse di là.
Kaos One & Dj Craim, @Sottotetto, BO


Kaos one, il 'Maestro' del rap italiano, è uno di quegli artisti che sono riusciti a mantenersi 'underground', nonostante il successo, nonostante i tempi. Una mosca bianca e hardcore in mezzo a tanti moscerini.
Questa foto è del suo ultimo concerto a Bologna. E' il contributo di Eleonora Berloni a Patate&Cipolle (Grazie Ele e Delli per la bellissima serata).
L'ho avvistato in stazione due giorni fa, e ho pensato: perfetto, ora lo fermo per una domanda senza senso e  pubblico la sua reazione. Così l'ho pedinato per qualche metro, ma aveva il passo svelto di chi ha da pensare ai fatti suoi, e allora ho desistito -che diritto avevo di rompere le palle ad un artista che di pubblicità non se n'è mai cercata? Niente grandi etichette, niente Mtv e niente stereotipi e basse visioni che affliggono buona parte dell'hip hop commerciale. 


Usiamo la tavola Ouija che compare nella copertina del suo ultimo lavoro e proviamo a comunicare con i morti: Friedrich ci sei?
La musica per Nietzsche è l'arte dionisiaca. Contrapposto al mondo apollineo delle immagini, dell'apparenza e del sogno, il dionisiaco è il mondo dell'ebbrezza, della musica e della danza -è ciò che ribolle sotto le belle illusioni: il sostrato di caos, dolore, eccitazione, oblio di sé. Don Kaos come Dioniso?
 Il filosofopreferitodailiceali osserva che nella poesia del canto popolare -dionisiaco- il linguaggio è teso al massimo per imitare la musica. Ecco dove mi viene in mente il rap. 


           
  Pensiamo al concetto di flow, al beat-making, al freestyle: sembra proprio che nell'hip hop il senso sia guidato dal suono, che i significati e le parole vengano fuori dalla ricerca metrica, ritmica, melodica. Il significante non è un simbolo, un corpo morto che porta l'anima del significato: è invece tutto ciò che conta, è carne viva che suona, è gioco percettivo. La musica crea il concetto. Si tratta allora di un concetto "musicale", irrazionale, dionisiaco? 
Affogate pure queste riflessioni nel vino. Buone feste.

domenica 18 dicembre 2011

Appuntamento a Belleville

Domenica pomeriggio. Stavo quasi per mancare l'appuntamento col post del week end (un blog precario come il suo tempo?) ma poi ho pescato nei ricordi, pescato nell'hard disk... ed ecco qua.
Oggi ci vediamo a Belleville.
Appena usciti dalla metro, fermata Belleville, 20esimo arrondissement. Facciamo finta che non fa freddo. Belleville è lì a ricordarti che Parigi non è solo la città da copertina, la città del Louvre, di Notre Dame, della torre Eiffel e chi più clichés ha, più ne metta. Non è nemmeno (sol)tanto la città del quartiere latino, la città romantica delle tele di Montmartre o delle passeggiate lungo la Senna (e nemmeno la città di Midnight in Paris!). C'è una Parigi coi muri imbrattati, che non puzza del burro dei croissant ma di paninazzi vietnamiti. Dove i turisti difficilmente arrivano, ma mille culture, accenti e tradizioni si incrociano, aprono un negozio di 'alimentari tipici', dipingono. Dove il caffé al tavolino in strada ti sembra più poetico. Belleville è uno di quei posti, una Chinatown un pò bohemienne, un quartiere intra-muros ancora PoPolare, un villaggio in città, i cui abitanti provengono un pò dappertutto. Mettiamoci la colonna sonora: le Chinoiseries di Onra (chi non lo ascolta mentre legge gode solo a metà).
                                                                                                            
  
Ed eccoci qua in Rue Dénoyez, in mano un sandwich ripieno di pollo al limone e carote crude tagliate fine. Questa via è uno spazio creativo che si rinnova costantemente. Se ci torni dopo qualche mese è già tutto cambiato, e magari il pezzo che ti piaceva si intravede sotto quello nuovo. Cambia sempre anche la vetrina della galleria LaFriche, punto espositivo, di incontro e pure punto di vista privilegiato sui graffiti (se non altro perché si dipinge proprio lì davanti!). Friche è un termine tanto interessante quanto forse abusato in riferimento all'arte africana contemporanea. Indica uno spazio deserto, incolto, lasciato a sé, eppure fertile e vitale. Anzi, proprio perché non recintata, proprio perché inesplorata, l'arte della friche è selvaggia, ibrida, istintiva, rigogliosa.

Pausa caffè (Bar aux Folies).
Vi saluto con la NoRulesCorp

Prendo spunto dalla pic per augurarvi buona riflessione e buon relax, senza freni né regole. Ricaricate le energie, domani è già Lunedì e per molti questo non vuol dire niente di buono. Ma i viaggi mentali non ce li può negare nessuno. Dove ce ne andiamo domani? 

venerdì 9 dicembre 2011

Chi ce l'ha la chiave?

Un lucchetto. E allora?
 E' un lucchetto che mi ossessiona. Difficilmente chi abita a Bologna sarà riuscito a non notarli...sono proprio tanti e sono dappertutto. 
Cosa aprono? Cosa chiudono? 
Qual è la chiave di lettura?
Non chiedetelo a me, non conosco neppure il suo nome. Non me ne vorrà se qui me lo invento: 
Angela Custode
[ 'Custode' per ovvi motivi, 'angelo custode' perché è con te ovunque vai, 'Angela' perché sono un pò femminista - se poi è un uomo si troverà in ottima compagnia con Ericailcane].










Come dicevo non so nulla di Angela Custode. Ma ogni mattina vado a lavoro e lo incontro, all'aperitivo lo ritrovo, spunta sotto casa dei miei amici e così via per via. Si sa che la ripetizione del marchio funziona. Specie se ogni volta il marchio è diverso ma perfettamente riconoscibile. Le variazioni risvegliano i nostri neuroni. E poi se un simbolo nudo e crudo ti si mette davanti agli occhi tante volte, quasi sicuramente innesca in te una serie di interpretazioni, ipotesi di significato, domande. Ok, sicuramente Angela Custode non è Shepard Fairey, ma vi dice qualcosa? 
A cosa associate il lucchetto? Alle promesse d'amore che le coppiette appendono sui ponti in tutto il mondo? Alle maxi catene da bici, che a Bolo hanno vita così breve? Chiude un tesoro nascosto o blinda la città? 
Denuncia la repressione che serra Bologna a colpi di ordinanze o invece ricorda al viandante che se trovi la chiave ti si apre un paradiso?



O forse invece non vuole comunicare nulla. Solo "darsi a vedere", mostrarsi a chiunque, ripetutamente, in più declinazioni e in più contesti. Ceci n'est pas un cadenas: il lucchetto è una rappresentazione, ma magari di quelle che non rappresentano. Un simbolo vuoto che si espone e si riespone. Lo riempia chi vuole secondo il suo umore.


[Ringrazio iProce per la collaborazione e la sopportazione]

sabato 3 dicembre 2011

Se il museo non funziona cerca in strada

Fino a vent’anni fa i Marziani non avevano biblioteche. Inviarono una delegazione sulla terra per esaminare le nostre e istituire, al rientro, un sistema analogo su Marte. Qualcosa però sembra non sia andato per il verso giusto (…) in ciascuna sala di lettura i libri di particolare pregio sono montati su speciali supporti, contro una parete e dietro una grata che tiene i lettori a circa un metro e mezzo di distanza (…) infine non ho capito perché il negozio all’ingresso fa affari d’oro vendendo piccole (e naturalmente illeggibili) riproduzioni in gesso dei libri più amati”. 
Questo è il trip del Professor Rompiglioni [in N. Goodman, Art in theory, art in action, 1984]. Se lo guardiamo da una prospettiva alienata, la struttura del museo al quale ci siamo abituati fa un po’ sorridere. A volte somiglia più ad un carcere, che tiene le opere sotto chiave e trasforma noi visitatori in possibili criminali. Oppure una sorta di protezione testimoni, che però a queste opere-testimoni chiude la bocca. Parlano gli apparati documentari, le etichette, le didascalie, parlano i video esplicativi, parlano le brochures…Ma le opere parlano?


Certo, i musei d'arte contemporanea di ultima tendenza sono più furbi: spesso puoi toccare, interagire, alcune stanze aspettano proprio il tuo arrivo e magari una tua performance... ma qui intendo il museo classico. Madrid, Reina Sofia, stanza di Guernica. Alzi la mano chi ce l'ha fatta a fare una profonda esperienza estetica. Nessun intoppo? Intanto riuscire ad arrivarci davanti al quadro, poi la folla di turisti che dall'altra stanza scatta foto all'impazzata (perché farle da lì è vietato, e c'è l'hostess di guardia a ricordartelo), poi la guida che ripete la stessa litania al suo folto gruppo di discepoli 50enni, poi dei cyborgs con cuffie e strani marchingegni. Tutto molto buffo, o molto finto. Se aggiungiamo matitine e cartoline all'uscita, quasi una Disneyland, ma meno divertente. 


E non è certo colpa di Picasso!

"Un quadro vive in compagnia, dilatandosi e ravvivandosi nello sguardo di un visitatore sensibile. Muore per la stessa ragione" [Mark Rothko, Writings on art].

L'opera d'arte non “funziona” senza di noi, la nostra percezione, la nostra interpretazione. Se stiamo lì a fotografarla come fosse un animale allo zoo, perde il suo spirito, o viceversa noi perdiamo lei. Immaginiamo di uscire dal museo senza perdere la curiosità che ci aveva spinto ad entrarci. La città come un museo a cielo aperto? Meglio: niente catalogazioni, niente biglietti, molte meno regole, file, guide e tanta più casualità, sorpresa. Un saltino da Madrid a PamplonaQuesto è quello che ha visto il mio amico Tek (la sua foto è il primo contributo che Patate&Cipolle riceve, speriamo non sia l'ultimo!). 

Avvistamento del 2007, sulla porta dell'arena di Pamplona, dove in estate termina l'Encierro.

Lasciatemi vivere”. Parla il toro della tradizione spagnola, oggi che le sorti sembrano essersi rovesciate: l'uomo e le sue corride ci sembrano brutali e primitivi, non il toro. Il toro richiede “umanità”, e ci implora uno stop proprio all'entrata. Lo sfondo rosso è perfetto per schizzare un'invettiva alla tradizione. C'è sempre un po' d'amore quando ci si ribella.






Vi lascio con una mia scoperta (scusandomi per la qualità della foto). Un paio d'anni fa ho trovato una Pietà su un muro parigino. Una street version nell'epoca del consumismo, ma non meno potente di quelle conservate nelle chiese o nei musei. Secondo me una composizione classica, che entra a pieno titolo nella tradizione (forse per riderci sopra, meglio ancora). Madonna Coca-cola, Cristo Coca-cola e noi i fedeli. Fidelizzati, ma non ancora persi.


Buon week end. Claire